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VIAGGIO IN MONGOLIA. Diario di bordo

Blog Heidi Zorzi Viaggio in Mongolia

25 febbraio, Venezia.

Partita.

Viaggio sopra un mare di nuvole. Proprio come in questi ultimi giorni ai monti, la cappa di nuvole nasconde spesso i raggi, ma sopra isole svela i cumulonembi che creano un paesaggio irreale di pianure, colline e montagne che vanno dal bianco candido al grigio intenso.

Già nel viaggio verso Venezia, accompagnata da mio figlio Francesco, era nel cielo che si perdeva il mio sguardo, a rimirar il volo di uccelli leggeri che pareva stessero disegnando nel cielo con maestria e dolcezza.

Grazie Vita!

Un sentimento di gioia e gratitudine mi pervade. Nemmeno la notte della vigilia mi sono sentita turbata.

Sono dove sono.

Sono dove devo essere.

 

26 febbraio, Ulaanbaatar

Il cielo è sereno e l’aria è frizzante, quando usciamo dall’aeroporto di Ulaanbaatar.

Dicono -15°, la nostra guida Soko e l’autista del nostro mezzo: un improbabile pulmino giallo con le tendine viola con le nappe.

Partiamo con i vetri che si gelano, verso il monumento di Zaisan, costruito per ringraziare l’aiuto Russo ai tempi della guerra sopra una collina. Un grande muro circolare raccoglie dipinti del sostegno avuto dai Russi nella dichiarazione di indipendenza della Mongolia, la sconfitta dei Giapponesi, la vittoria sulla Germania nazista, ma anche le conquiste in tempo di pace, come  i voli spaziali.

 

 

 

Dall’alto la città pare irreale. Palazzi moderni si alternano a palazzotti di stile russo e alle piccole gher, le tipiche abitazioni rotonde di un popolo ancora largamente nomade. La parte settentrionale della città è ancora costituita dalle tipiche gher, non collegate alla rete fognaria. Scostata dalle tende una piccola costruzione contiene la latrina, per lo più una fessura ricavata nel cemento con sotto un vano di contenimento.

Nella parte più moderna, in contrasto, si alternano casermoni imponenti e grattaceli di specchi.

La seconda tappa della giornata il Palazzo d’inverno di Bogd Khan, con annesso museo, dimora dell’ultima guida spirituale mongola divenuto poi imperatore. Nel complesso si alternano templi Buddisti alle stanze del Bogd Khan contenenti preziosi, mobili, opere d’arte e indumenti pregiati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel pomeriggio raggiungiamo il monastero di Gandan, un intero quartiere dedicato al culto buddista, con templi di stili diversi, ma che mi ricorda molto i templi del Nepal. Essendo domenica pomeriggio e l’inizio del loro anno, molti sono i fedeli che pregano e fanno offerte.

Mi soffermo a guardare un giovane monaco vestito di arancione che arriva al tempio accompagnato in macchina da un coetaneo vestito in maniera occidentale. Scende dalla macchina allungando il passo, si sistema la stola rossa con fare metodico ed entra unendosi al resto dei monaci che continuano la loro preghiera in modo ritmico, quasi una nenia interrotta a tratti da suoni di campanelli e del grosso tamburo suonato dal più piccolo dei monaci, una ragazzino di forse otto anni dagli occhi vispi e attenti.

 

 

 

 

Ci allontaniamo dalle preghiere per raggiungere la stazione: ci aspetta un lungo viaggio in treno che ci porterà, domani mattina, a Erdenet.

Oggi l’emozione dominante è stata la curiosità, la leggerezza di questi visi rotondi che mettono il buon umore. Molte cose sono trasandate, è vero, ma è proprio il loro vero essere, è qualcosa che li caratterizza. Vestono eleganti vestiti in seta, le donne truccate, gli uomini rasati, ma le loro scarpe sono spesso infangate e impolverate.

In ogni bimba vedo gli occhi vispi di mia nipote Camilla e mi arriva un ricordo – o forse un sogno? –  in cui la nonna Giglia mi raccontava di qualche ricerca sui suoi avi che la riportava al mondo Mongolo.

27 febbraio, Erdenet

La notte è trascorsa a singhiozzo nel caldo treno della Transmongolica.

Ha nevischiato un pochino e quando scendiamo, alle 7.30,  il cielo è ancora coperto. Un sottilissimo velo bianco copre ogni cosa.

Per la colazione siamo ospiti a casa di amici della nostra guida. Hanno cucinato per noi tortellini di carne, c’è un burro spumoso che pare panna montata, marmellata, biscotti di buon augurio per l’anno nuovo a forma di impronta di piede.

Hanno un piccolo bimbo, di nove mesi che guarda curioso i nostri visi, chissà cosa pensa; ha l’aria molto seria, ma le carezze sulle manine lo fanno felice ed i suoi occhi si illuminano.

La casa è piccola, ma accogliente. Ci fanno sedere sul grande divano, qualcuno su piccole sedie e sono attenti ad ogni nostra reazione. I mongoli non capiscono la nostra lingua, ma hanno una straordinaria abilità nel leggere il non verbale e capire le nostre necessità. Nonostante sia una costruzione in muratura, la casa non ha il bagno e neppure la doccia. Il wc è esterno e la doccia la si può fare nelle docce pubbliche. Il problema non sussiste.

Penso alle nostre case, coi doppi sevizi, la doccia e la vasca, lussi a cui ci siamo abituati e che diamo per scontati.

Dopo la colazione, salutati gli amici Mongoli, partiamo con i fuoristrada in direzione Nord-Est, valichiamo alcuni passi, poi ci inoltriamo in una strada sterrata, anzi, a dire il vero, vista la spolverata notturna, innevata, che percorriamo per 35 chilometri, fino ad arrivare al monastero di Amarbayasgalant.

Il complicato nome deriva dalla somma dei nomi di due bambini che in quel territorio giocavano, aiutandosi a spingere un pesante carretto. È un complesso di costruzioni con stile cinese, fondato nel 1700 per custodire le spoglie del primo Buddha mongolo, Bogd Khan Zanabazar, anche conosciuto con il nome di Tempio della FelicitàTranquilla.

È uno dei pochi monasteri rimasti quasi completamente intatti. Al centro si erge il monastero formato da diverse costruzioni, sulla sinistra un piccolo villaggio costituito da gher e da casette di stile russo è la dimora delle famiglie dei monaci. Sulla destra una costruzione piuttosto grande serve da convitto per gli studenti che li vivono, studiano e pregano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il monastero è sovrastato da una grande statua dorata di Zanazabar e da uno Stupa tibetano entrambi raggiungibili inerpicandosi sui 108 gradini delle loro scalinate. Sopra, una collina dove si intravede ancora qualcosa, forse un ovoo, luogo di culto caratterizzato da cumuli di sassi, bandierine e preghiere, simbolo di dimora degli spiriti della montagna.

Dall’alto la vallata appare in tutta la sua magnificenza e questo tocco di neve nuova ne fa un ambiente davvero magico. Pochi gli alberi, ma come scopro dai nostri accompagnatori, non sono particolarmente amati dai Mongoli che amano il silenzio e gli alberi, con il vento, diventano invece rumorosi.

È qui che porto nel cuore il pensiero di tutte quelle persone che hanno contribuito a questo mio viaggio, il ricordo di chi ha cambiato dimensione, che è entrato a far parte di quel mondo che percepiamo e fa parte di noi.

 

 

 

 

 

 

La valle del monastero potrebbe essere una meravigliosa meta anche in bicicletta:  numerosi saliscendi, nella steppa, fra gli animali al pascolo: cavalli, piccole mucche dal pelo lungo e arruffato, pecore e capre.

Rientriamo lentamente verso Erdenet, dove pernottiamo ed apriamo il cerchio del viaggio. Cominciamo a conoscerci, a scambiarci le nostre impressioni, ad entrare nel profondo.

28 febbraio, Erdenet

La giornata inizia con il risveglio di yoga sciamannino e meditazione: respiro di fuoco, respiro circolare, respiro consapevole.

Scopro con gioia che lo yoga sciamannino o immaginale, è animalità: ti muovi e respiri me un animale. È così che abbiamo impersonato l’aquila, la pesantezza dell’orso, la corsa del cavallo.

E poi si parte per Murun. Il viaggio è lungo, ma è bello conoscersi, raccontarsi, scoprirsi. La presenza di Alex, di origine russa, porta al nostro gruppo un’ondata di pazzia, ma anche di profondità e di conoscenza.

Nei pulmini i nostri racconti, mentre fuori dai finestrini scorrono immagini sempre più brulle. La neve pian piano scopare, il vento la fa da padrone e le praterie tornano a mostrare il loro lato più brullo. Sui versanti delle montagne si riconosce il lato Nord, più umido, che permette agli alberi di crescere, mentre a Sud sono ghiaiosi con qualche macchia di rado prato.

Incontriamo degli strani uccelli molto grossi a lato strada, forse degli avvoltoi, mentre l’ultimo furgone ha la fortuna di vedere roteare un’aquila sopra di loro.

Ad un certo punto, dopo quasi una giornata di viaggio, ci fermiamo e torniamo indietro per ricongiungerci con uno dei furgoni che, fermatisi per fotografare una gher sono stati invitati ad entrare dalla padrona di casa.

Siamo quasi una quindicina di persone eppure la signora ci fa accomodare attorno al fuoco della stufa, ci offre il suo tabacco e ride della tosse che procura a qualcuno di noi. Per loro è un usanza, in questo inizio anno, scambiarsi il tabacco chiedendosi come è iniziato l’anno. La nostra guida Soko ci insegna la risposta in mongolo “Se ha  che significa “bene” e la signora sorride, contenta delle nostre risposte.

È attenta a non saltare nessuno, poi ci fa passare il tipico piatto di ringraziamento dell’inizio anno, con biscotti, dolci e l’immancabile ricotta secca. È molto interessata ai nostri lavori, alla nostra vita e noi abbiamo modo di conoscere qualcosa di lei e del loro modo di vivere.

Ci racconta che ha due figli ormai grandi, uno medico e uno architetto che abitano in città, ora. Lei ed il marito curano gli animali e si spostano due, tre volte all’anno, per andare dove i prati hanno ancora erba da brucare. Hanno una ventina di cavalli, quindici mucche e quattrocento tra pecore e capre. Quando decidono di spostarsi, la gher viene smontata e rimontata da due uomini in un paio d’ore e trasportata nel cassone del pick-up fino alla nuova dimora.

Mentre siamo intenti nel conoscerci, arriva anche il marito, ci guarda con sorpresa, ma anche con rispetto. Cerca qualcosa in tasca, ne estrae un cioccolatino che da alla moglie. Lei sorride, lo scarta, lo mangia, poi il marito cerca una piccola sedia e si accomoda nel cerchio della casa con noi. È di poche parole, ascolta le nostre domande, sorride, poi quando decidiamo di togliere il disturbo, escono con noi e si associano alle nostre foto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ripartiamo con i loro sorrisi ed in breve siamo a Murun.

1 marzo, Murun

Prima di allontanarci da Murun, facciamo una visita al museo locale, dove una gentile ed elegante ragazza, nel suo costume tipico, ci racconta della storia della Mongolia, di curiosità e aneddoti.

Il museo è all’interno di una scuola dove i bambini stanno facendo lezione. La scuola è di stampo russo perché fu l’Unione Sovietica a portare l’istruzione in tutto il paese. È toccante vedere l’emozione di Dasha e di suo padre Alex, che rivedono le loro scuole, di quando erano bambini, la stessa organizzazione degli spazi, lo spogliatoio dove lasciare le scarpe e gli indumenti pesanti.

Ripartiamo in tarda mattinata per il villaggio di Khatgal, sul lago Khuvsgul. Lago che, come ci ha raccontato la guida del museo, i Mongoli considerano mare per un curioso avvenimento accorso molti anni addietro, quando il re chiedeva un dazio da pagare a tutti i laghi della nazione. Gli abitanti del lago Khuvsgul, che erano piuttosto poveri, volevano evitare di pagare e dissero al re che quello non era un lago, bensì un mare. Il governo, certi dell’aridità della zona, comunicò che il lago sarebbe stato dichiarato mare se avesse avuto almeno dieci emissari. Fece partire da Ulaanbaatar una delegazione governativa a cavallo per controllare gli emissari del lago. Nel frattempo la popolazione del lago, chiamò a raccolta tutti gli sciamani della zona per chiamare la pioggia. Piovve per molti giorni e quando la delegazione arrivò a destinazione, trovò che l’acqua entrava da ogni valle, da ogni piccolo avvallamento e così venne dichiarato mare ed abolita la tassa.

La meta di oggi è l’abitazione di una sciamana e la via più comoda è quella del ghiaccio del lago. Noi ci guardiamo un po’ titubanti, ma pare che qui sia del tutto normale. Le macchine sfrecciano a velocità sostenuta, i freni non si toccano, nemmeno quando vediamo da lontano un cane slegato che è nella nostra direzione. Si suona il clacson finché il povero peloso si sposta, toccare i freni sarebbe molto più pericoloso.

Una luce meravigliosa ci fa fermare e scendere per fare foto. Stare sul ghiaccio è qualcosa di incredibilmente bello. Il blu cobalto del lago è intarsiato da migliaia di arabeschi formatisi durante il congelamento, bolle d’aria sono rimaste imprigionate formando disegni e decori. Sembra di camminare su un enorme ingrandimento dei nostri tessuti, del nostro dna, delle nostre sinapsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo un po’ di girovagare sul lago, troviamo finalmente la sponda corretta per arrivare all’abitazione della sciamana. Come la gher che avevamo visitato ieri, ci accoglie un paesaggio di animali al pascolo, legna da tagliare, un affettuoso cane in cerca di coccole. Dentro la tenda la signora sta preparando il te con il latte, ci offre i dolci ben augurali, ci accoglie con un dolce sorriso. È una donnina tranquilla, con gli occhi trasparenti, con un grande sorriso, dall’aria buona.

Il marito è il suo Touchè, ovvero il suo aiutante e traduttore perché le anime dei suoi antenati coi quali si mette in contatto sono molto antichi e parlano una lingua antica, piuttosto diversa dal Mongolo attuale.

Risponde con cortesia alle nostre domande. Scopriamo essere una sciamana bianca e anche nera. Ci spiega che lo sciamano bianco serve solitamente per guarire le malattie ed interpella le anime degli Avi, mentre quello nero ha contatto con gli spiriti della natura ed opera anche su richieste più ampie. Ci racconta come è diventata sciamana, ovvero, ad un ceto momento della sua vita stava molto male e non trovava rimedio in nulla, finché uno sciamano le ha detto che gli spiriti dei suoi antenati sciamani l’avevano scelta per portare avanti la guarigione. Così ha iniziato a studiare con un maestro ed ha cominciato a guarire, man mano che lei aiutava altre persone a guarire.

Poi ha iniziato la vestizione aiutata dal marito. Ha messo il mantello con i sonagli, una mascherare le nasconde un po’ il viso, ha bevuto del latte e poi ha cominciato a suonare ritmicamente il tamburo. In poco tempo ha avuto una sorta di scossone ed ha cominciato a barcollare e parlare con una voce grave, come fosse un uomo.

Si è seduta ed ha iniziato a dedicarsi ad ognuno di noi.

Sebbene avesse detto che avrebbe risposto alle domande solo di cinque o sei persone, non si è fermata ed ha rivolto la sua attenzione a tutti.

Il mio incontro è stato semplice, ma molto interessante: mi ha fatto sorridere dicendomi che non capiva: vedeva dietro di me delle persone che mi seguivano, con la testa coperta ed il viso mascherato. Credeva volessero farmi del male, ma nello stesso tempo percepiva la mia tranquillità. La guida le ha spiegato che faccio la maestra di sci e che quelli potevano essere gli allievi. Era rasserenata. Mi ha detto che sentiva uscire da me una buona energia e che la dovrei espandere a più persone.

A me come agli altri del gruppo, ha dato semplici indicazioni per migliorare la nostra vita o per la nostra evoluzione.

Ci ha ringraziati perché non le abbiamo tolto energia, anzi gliel’abbiamo data e per questo è riuscita a soddisfare le richieste di ognuno.

Scendeva ormai la sera quando siamo usciti. Il cane è tornato a prendere la sua dose di carezze, il marito è tornato al taglio della legna.

Siamo risaliti sui furgoni e ripreso la via del lago, anche se con il buio non è stato facile, per gli autisti, trovare i passaggi sul lago e più di una volta siamo finiti in tratti di lago dove le increspature erano tali da non permettere il passaggio. Bravi gli autisti che hanno trovato comunque i passaggi e ci hanno condotto al nostro campo gher per la notte.

 

 

 

 

 

 

Quelle dove siamo alloggiati sono tende ad uso turistico e benché la stufa dentro emani molto calore, non sono isolate come quelle dei pastori ed entra l’aria fredda da molte parti.

Il cerchio della sera è stato molto toccante; eravamo tutti ancora molto emozionati e benché sia andata a dormire molto tardi ho faticato a prendere sonno. Troppi pensieri, troppe immagini, troppe emozioni di questa meravigliosa giornata.

2 marzo lago di Khusvsgul

Dopo tanta carne ho bisogno di un po’ di pulizia e ne approfitto per praticare l’Ekadashi. Prima di partire mi era stato chiesto se mangiavo carne o se ero vegetariana. Ho risposto che sì, mangiavo carne, ma non avrei pensato di averla come piatto principale ad ogni pasto! Quindi oggi rimango a digiuno colazione e pranzo, ci penserò questa sera, ad introdurre di nuovo del cibo.

Oggi rimaniamo sul lago per il Festival del giaccio. Sono un po’ stanca per la notte passata e sento freddo quando arriviamo alla festa che è piena di gente, ci sono molti tavoli di cose da comperare. Girovago fra i banchi, compro delle erbe per fare tisane, delle ciotole di legno, poi accompagno altri del gruppo nei loro acquisti. Sul palco si avvicendano balli, cantanti, la banda, monaci buddisti con le loro preghiere. Grandi e piccini si sfidano, giocano, pattinano, mangiano, ridono come se ognuno tornasse alla loro fanciullezza.

Non esistono regole: si pattina, si cammina, si balla, si gioca nello stesso spazio senza creare nessun incidente e senza giudizio.

È una grande festa per loro, non per il turista ed è proprio come dovrebbe essere.

Mi diverto a consegnare ai bambini i colori acquistati con gli album da disegno. I loro sorrisi, le corse dai genitori per mostrare loro il regalo, le foto dei genitori per ringraziarmi del piccolo gesto. Ed io ringrazio a mia volta chi ha contribuito a donare un po’ di felicità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La giornata si conclude con una toccante meditazione di Ivano, compagno del gruppo, che da anni segue le orme di un maestro indiano Dakota. La meditazione è dedicata agli animali del festival, cammelli, cavalli e aquile, messi al servizio dell’uomo e non più liberi. Una meditazione bellissima fatta attraverso un canto Dakota che ci rivela una voce meravigliosa ed una potenza energetica straordinaria. A molti di noi scendono lacrime calde. Ci sentiamo uniti e certi di essere proprio dove dobbiamo essere.

 

3 marzo, lago di Khuvsgul

Ancora lago Khuvsgul e festival del ghiaccio. Questa mattina, però, ci vado a piedi.

È magnifico camminare sul ghiaccio di questa distesa lacustre grande sette volte il lago di Garda. Affascinante scoprire come l’acqua, gelando, aumenti il suo volume e crei delle onde ghiacciate, mentre nel fondo restano i segni delle crepe che si sono formate con l’aumentare dello spazio richiesto.

 

 

 

 

 

 

Al festival, mentre finisco di distribuire album e colori a variopinti bambini, scopro nuovi sport, come la pallavolo giocata con squadre divise in coppie che tenendo un telo in mano, lanciano e riprendono la palla, da una parte all’altra della rete.

Divertentissimo il tiro alla fune, dove vince chi riesce a stare in piedi sul ghiaccio. Mentre siamo lì ad osservare, una ragazza prende sotto braccio l’amico Ivano e lo porta a partecipare alla sfida. Si fa fotografare, filmare, poi viene, ridendo come una matta, a farci vedere le loro evoluzioni. Gentilissima mi manda le foto via Facebook, mentre ancora se la ride di gusto. Foto di gruppo, sorrisi, saluti. Grazie Namuun!

Dopo un pranzo alla festa, in una gher adibita a cucina, dove si preparano ottimi panzarotti a base di carne, pesce o verdure, salutiamo il lago e in direzione di Murun dove è in programma un nuovo incontro con una sciamana.

È piuttosto giovane, forse sulla quarantina, veste in modo sportivo con una tuta della Nike. Ci accoglie nella sua abitazione, ci offre il te, risponde alle nostre domande poi inizia la sua vestizione.

Anche lei, come l’altra sciamana è diventata tale non per scelta, ma come richiesta del suo corpo ammalato. Mi era capitato di sentire della malattia scamanica, ma non pensavo potesse essere così comune! Anche per lei il dedicare la sua vita alle persone da curare è diventata la sua cura.

Lei è una sciamano bianca dedita alla guarigione delle persone. Non si collega con gli spiriti degli Avi, ma si mette in contatto con lo spirito guido che dimora dentro di lei attraverso un canto, una sorta di nenia che serve sia a lei che a noi per entrare in uno stato di ascolto.

Prima del canto, veste il mantello e il copricapo che le copre il viso e suona un particolare tamburo a forma triangolare. Grazie alle punte dello strumento riesce a proteggersi e proteggere le persone dagli Spiriti maligni, dice.

Prende le nostre mani nelle sue e ci da indicazioni. Le faccio una domanda sulla mia tiroide pazzerella, lei mi accarezza la gola, mi dice che ho una vita molto lunga e che il problema alla tiroide si risolve. Alterna di continuo le parole alla sua nenia ed a tratti, tanto risultano sovrapposte, pare che le due voci appartengano a due persone distinte.

Uscendo dalla sua casa, finito l’incontro, incrociamo la sua prossima cliente che ci informa che al lago, dopo cena, ci sarà la conclusione della festa con la partecipazione di alcuni sciamani della zona.

Un breve briefing e buona parte del gruppo è interessata a tornare al lago. C’è un bel pezzo di strada, ma i nostri autisti sono favorevoli e fatta una veloce doccia partiamo.

Quando cominciamo ad essere vicini notiamo molte macchine che procedono in senso contrario e l’arrivo nel parcheggio con la fila di macchine in uscita ci fa temere di essere arrivati troppo tardi. Così è, in effetti, ma vedere l’area della festa illuminata dalle luci è veramente bella.

Notiamo, un po’ distante, un grande falò e decidiamo di avvicinarci. Preciso, un falò sul lago!!! Lungo i percorso, un amico del gruppo trova due  schiaccia pensieri, strumenti usati dagli sciamani per connettersi con gli Avi. Arrivati al fuoco, mentre tentiamo maldestramente di capire come si suonano, arriva una donna insieme ad una decina di persone. Si ferma davanti al falò e comincia a suonare il suo strumento, poi invoca il fuoco e con le mani tira a se il fumo. Le persone con lei girano tre volte in senso orario attorno al falò e seguono in silenzio i movimenti della donna. Noi li seguiamo.

Ha tutta l’aria di una sorta di rito. Noi assistiamo in silenzio e quando se ne vanno la guida ci spiega che la donna ha estratto dal fuoco le benedizioni che avevano fatto gli sciamani prima del nostro arrivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È affascinante la vicinanza che queste persone hanno con la natura, con l’energia che possono evocare a loro favore. È parte profonda della loro cultura, del loro vivere e non importa l’età; che siano anziani o giovani come i miei figli, il loro atteggiamento è di assoluta attenzione, di rispetto, di fede,

4 marzo, Murun

Oggi si torna ad Erdenet. Ci attende una giornata di viaggio.

Sono passati pochi giorni, eppure sembra un’altra stagione: la neve se n’è andata, i vetri non gelano più e l’aria è più tiepida.

Il viaggio è piuttosto silenzioso. Ognuno con i propri pensieri a rielaborare questa esplosione di immagini, emozioni, colori.

Un po’ come i cassetti strapieni di un vecchio comò, in cui, quando metti le mani, poi non riesci più a richiuderli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla sera prendiamo il treno che domani mattina ci porterà ad Ulaanbaator, mentre i nostri bagagli rientrano con i furgoni, grazie ai nostri mitici autisti.

5 marzo, Ulaanbaatar

Come appare ancora più grigia, questa città di Ulaanbaatar, dopo questi giorni!

Ci incamminiamo appena scesi dal treno, verso la casa di Gherlè, socio di Soko, che ci ha gentilmente preparato la colazione a casa sua, poi ripartiamo con i furgoni verso la zona nord della città con meta il parco di Bogd uul, dove si tiene il Festival delle aquile.

Il luogo è una ricostruzione turistica del tempo di Gengis Khan, frequentato spesso dalla gente di Ulaanbaatar per uscire dal traffico e dallo smog della città. Ci sono le yurte sopra i grandi carri con le ruote che ne hanno molto di leggenda, le statue di legno dei guerrieri del condottiero, il teatro all’aperto, la grande statua di Gengis Khan rivolta verso il suo paese di nascita.

Quando arriviamo c’è già posizionato il mercatino con gli oggetti artigianali. Curiosando trovo una stuoia tessuta a mano molto bella. La vende una giovane donna, molto bella con i lineamenti molto diversi dai Mongoli visti fino ad ora. Soko, la nostra guida, mi fa notare come i suoi lineamenti sono molto più simili alle genti russe, infatti è di etnia Kasaka, come i cacciatori con le aquile arrivati da quella regione lontana.

La donna ha con sé un piccolo bimbo di sette mesi; mi guarda incuriosito: chissà se vede qualcosa di diverso nel mio viso occidentale…

Di lì a poco arrivano i famosi cacciatori a cavallo con le loro aquile. Hanno vestiti molto belli con il fondo dei pantaloni riccamente ricamati e le giacche di pelo. Fanno la loro passerella e danno inizio agli spettacoli di danza e di canto sul palco del teatro all’aperto.

Un po’ mi sembra di essere a Gardaland, quindi decido di allontanarmi dalla festa camminando verso la statua di Gengis Khan, su verso la montagna e poi ancora oltre fino ad arrivare al bosco di betulle che copre il versante della montagna. Da qui il paesaggio è molto bello e ben presto mi accorgo di essere in una posizione privilegiata rispetto ai cacciatori con le aquile che, nel frattempo, con i loro cavalli, si sono alzati lungo i versante della montagna ed hanno iniziato e loro esibizioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All’ora di pranzo ci spostiamo sul versante opposto, al sole, dove Gherlè ha montato una tende e preparato un’ottima zuppa di verdure.

Il pomeriggio assistiamo ancora alle prodezze degli arcieri a cavallo e delle amazzoni che mostrano le loro prodezze e capacità invidiabili, prima di ridiscendere verso la città per la visita al vecchio mercato.

Non abbiamo molto tempo, purtroppo, ma riusciamo comunque ad acquistare alcuni tamburi, delle pietre, qualche mala ed alcune stoffe meravigliose. I prezzi sono molto invitanti.

6 marzo, Ulaanbaatar

Ultimo giorno in Mongolia ed ultimo sciamano. Lo raggiungiamo al limitare della città dove la natura torna a farla da padrone.

Ci accoglie nella sua gher dove regna l’abbondanza. Soko ci dice che è uno sciamano famoso, consultato da politici e persone di spicco ed egli accoglie noi con lo stesso rispetto: il cappello elegante, i piatti dorati, vassoi carichi di dolci e formaggi per il benvenuto al nuovo anno appena iniziato.

Sembra un grande orso, ha gli occhi che ridono la bocca piccola. È molto affabile e conviviale e risponde con gentilezza alle nostre domande, poi ci chiede di spostarci nella gher più piccola adibita ai rituali.

Comincia la sua vestizione con camicia e pantaloni gialli di seta, gli stivali antichi con le punte che vanno all’insù e la suola liscia liscia per non far male alla terra. Il suo vestito è pieno di serpenti di stoffa con un campanello legato all’estremità.

 

 

 

 

 

 

 

L’entrata nel rito è piuttosto lunga: un po’ suona i tamburo, un po’ ci racconta cosa farà, un po’ ci scruta e ci dà indicazioni. Sceglie cinque di noi spiegando che le persone chiamate hanno bisogno un trattamento speciale: oltre a rispondere alle domande avranno bisogno di essere percosse con un frustino per risanare la loro energia.

Si sofferma a guardarmi e aggiunge che io non ne ho bisogno, che la mia energia è buona e tranquilla. Ci fa fare alcuni movimenti e ripetere delle invocazioni; ci fa benedire con l’incenso facendolo roteare intorno a noi per tre volte poi ci fa alzare in piedi e cantare una canzone dedicata ai cavalli.

Proprio durante la canzone, mentre suona il suo tamburo, ha uno scatto improvviso: lo spirito del suo Avo è entrato in luce può iniziare la cerimonia. Secondo lui gli Avi sono molto importanti e e sopratutto la nostra mamma è quella da venerare di più perché ci ha dato la vita. La madre è rappresentata da Tara bianca, l’incarnazione femminile del Buddha.

Una volta entrati in trance viene accompagnato a sedere sulla sua poltrona ed inizia a chiamare le persone. Sono tra le prime. Mi siedo sui talloni davanti a lui e sono tranquilla. Prende lamia testano le mani ed inizia a massaggiarmi il cranio dicendomi che bevo troppo poco. Sente una bella energia e dice che sono in pace con i miei Avi.

Mi dice di fare la ma domanda ed io chiedo cosa posso fare di utile per la vita, a crescita ed il benessere dei miei figli e di mio marito. Mi risponde che visto che abito vicino alle montagne (non glielo avevo detto) posso chiedere alla montagna ciò che voglio per loro, ma che è importante che io non porti le mie paure o preoccupazioni, altrimenti saranno quelle ad arrivare. Torno al mio posto con l’immagine del Pavion e delle Pale, fedeli compagne.

Anche a questo sciamano, come alle altre, ho fatto la domanda sulla differenza fra lo sciamano bianco e nero ed ha ampliato la risposta specificando che o sciamano bianco cura la malattia delle persone, mentre quello nero libera la persona da quella energia nefasta e così facendo libera anche tutta la sua genia.

Siamo stati lì dalle 10 del mattino fino alle 18 ed ha avuto attenzione particolare per ognuno. Ci ha spiegato che gli sciamani non vivono a lungo perché questo lavoro toglie loro molta energia. In più, a volte capita che il suo Spirito gli chieda di donare alcuni anni della sua vita a persone gravemente malate che devono compiere qualcosa.

Fin da piccolo si era accorto di avere un dono particolare: riusciva a sapere dove si erano persi gli animali, così spesso veniva interpellato dagli allevatori quando non trovavano il bestiame. Ad un certo punto, però, i genitori, preoccupati per la sua crescita, lo portarono da uno sciamano chiedendo se era possibile non avere più questa dote. Lo sciamano acconsentì e il ragazzo visse tranquillo fino al 2000, quando non potè più contenere l’energia che gli faceva sempre avere mal di testa ed altri dolori e così iniziò il suo percorso e quando iniziò a curare le persone, anche lui, come le altre sciamane visitate, cominciò a stare bene.

Alla fine della giornata ci saluta con l’augurio di tornare in Mongolia, di vederci ancora e ringraziandoci della visita.

7 marzo, Ulaanbaatar

È ora di tornare.

La città è silenziosa, poche le macchine in giro. È ancora buio. Salutiamo Ulaanbaatar con la luna piena che ci segue ed illumina le montagne innevate. Ciao Mongolia, arrivederci!

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel viaggio di ritorno il mio pensiero va a chi ha reso tale questo viaggio: un gruppo di persone coese ed unite, che prima di ora mai si erano conosciute.

Si dice che le persone che si incontrano  non si incontrano a caso: c’è sempre una ragione, una lezione, un dono. Per questo voglio concludere questo diario di viaggio con un pensiero a chi il viaggio lo ha fatto.

Li nomino così, un po’ in ordine sparso, dando la precedenza a chi ha lavorato per noi.

Parto da Soko, la nostra guida. Una splendida ragazza mongola la cui la nonna suggerì di imparare l’italiano all’università perché amante del nostro Festival di Sanremo. Attenta, premurosa, ottima organizzatrice. Ha saputo in ogni circostanza farci entrare in contatto con il suo bellissimo paese e la sua meravigliosa gente, È socia della cooperativa “Buona idea” messa in piedi da Gherlè e da Alfredo suo professore all’università.

Dasha, per i documenti Daria, accompagnatrice del viaggio con Michelangelo. Una ragazza piena di energia e di dolcezza che nonostante la giovanissima età è riuscita con il suo amore a tenere insieme un gruppo più che variegato. Russa di origine, inglese d’adozione, ha studiato in Francia ed ora vive a Vienna, parla molteplici lingue passando da una all’altra con la semplicità di una risata.

Michelangelo altro accompagnatore del viaggio, amante e studioso anche lui delle lingue e di antropologia. Nonostante la giovane età ha una grandissima esperienza di viaggi e di culture. È interessato alle persone dal punto di vista storico e culturale, prima di tutto. È stata la nostra enciclopedia viaggiante. Profondo conoscitore dello sciamanesimo mongolo ed anche siberiano è stato l’anello di congiunzione tra noi ed il mondo della cultura e della tradizione.

Eghee, seconda guida, non per capacità, ma solo per lingua. Non sa l’italiano, parla in inglese con forte influenza Mongola. Generoso e sempre disponibile ci ha raccontato della sua vita, dei suoi studi in Cina, del suo piccolo bimbo. Validissimo aiuto di Soko è stato sempre al nostro fianco.

I nostri autisti: Jambaa, Turuu e Otgoo che ci hanno scorrazzato con precisione ed attenzione ad ogni nostra piccola esigenza. Pazienti ed accomodanti, hanno soddisfatto ogni nostra richiesta di fermata per fotografie o altro, divertendosi delle nostre pazzie. Amanti del caldo nei loro furgoni, ci hanno fatto credere, a volte, di essere alle Hawaii

Ivana, la più grande del gruppo, vive a Monza. Viaggiatrice e sperimentatrice con una grandissima empatia. Organizzatissima e sempre sul pezzo, nonostante non parlasse molto l’inglese trovava il modo di capire e farsi capire anche da Eghee. Mi ha insegnato come si può essere combattivi usando la dolcezza.

Francesca, la Siciliana. Fotografa e mamma professionista, empatica, chiacchierona, simpaticissima, con un’abilità di comunicazione eccezionale da riuscire a farsi capire oltre ogni limite della lingua. Estroversa nelle sue esposizioni e profondamente amante della vita. Non vedo l’ora di vedere  pubblicata la sua mostra fotografica sulla Mongolia perché sarà un capolavoro.

Ivano, di Feltre, quindi mio vicino, ma che ho conosciuto grazie al viaggio. Falegname e costruttore di tamburi, da anni studia le tradizioni dakota. Grande viaggiatore ed esperto autista, ha portato la sua trasparenza e sicurezza. Profondo conoscitore della cultura indiana, ci ha trasportati tra boschi ed animali grazie al suo magnifico canto.

Kirsten, tedesca di origine, vive in Umbria. Fata preziosa è stata riconosciuta dalla prima sciamana come guaritrice. Ha portato nel gruppo la sua solarità e le sue profonde conoscenze sulle pietre, sugli angeli, nello yoga e nella meditazione. Preziosa spalla per molti del gruppo.

Michela e Andrea, unica coppia del gruppo, sono di Milano lavorano nella finanza. Hanno entrambi una sensibilità particolare oltre che una grande spiritualità. Belli, coesi, affiatati, è stato bellissimo condividere questo viaggio con loro. Sono i fortunati ritrovatori degli Schiaccia pensieri e sono convinta che non siano giunti nelle loro mani a caso.

Lucrezia, di Verona, medico dello sport ma molto attratta dal mondo olistico. Esercita la sua professione con un’attenzione alla persona a cui molto spesso i pazienti non sono abituati. Medita con costanza e lavora ogni giorno su sé stessa per mantenere la sua bellissima energia alta in un ambiente spesso insano. Curiosa e battagliera, ha portato nel gruppo la libertà e la determinazione.

Alexey, ovvero Alex, papà di Dasha. Il Russo genuinamente folle del nostro gruppo. Ha lasciato la Russia ed ora vive in Inghilterra. Parla molto bene quindi l’inglese e qualche parola di Italiano che dopo questa esperienza con noi, capisce un po’ di più. Profondo, intelligente, ha portato nel gruppo una ventata di allegria e di libertà oltre alle sue innate capacità di risolutore di problemi: è stato per molti mastro fochista nelle gher sul lago.

Luisa, dolcissima, Os di pronto soccorso friulana, ha fatto esperienza come volontaria in Brasile. Mite, pacata, ma nello stesso tempo interessatissima al mondo dello sciamanesimo. Ha portato nel gruppo la sua cura ed attenzione per chiunque.

Giulia, ottico bolognese con origini ungheresi. Simpatica, socievole, un po’ “peperina”, amante dei viaggi di scoperta e di esperienze. Sente un legame profondo con la Mongolia riconoscendo in essa le sue radici.Attenta alle energie e alla spiritualità, ha portato nel gruppo la sua bellissima energia, il suo coraggio ed empatia.

Laura, la Svizzera che lavora nelle Risorse Umane di una grande banca. Empatica, dolce, grande esperta di lingue, tramite lei sono riuscita a conoscere molte cose di Eghee. Amante del cioccolato ha sostenuto il gruppo e gli autisti in molte occasioni. Entusiasta della vita, curiosa delle culture altrui, grazie alle sue numerose domande ha arricchito anche noi.

                                                          ********

Con questa istantanea del gruppo chiudo questo diario.

Mi auguro che fra le righe esca la riconoscenza verso chiunque abbia reso unico questo viaggio.

Se chiudo gli occhi vedo il nostro Cerchio, il cerchio del gruppo, attorniato dai colori di questo incantevole paese, dall’odore degli animali, dal calore dei mongoli, dai vestiti, dai sorrisi e dal magico ghiaccio del lago. Grazie.

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Scritto da Heidi Zorzi

Diventare Mental Coach, mi ha aiutato a comunicare con i miei figli, con i miei allievi, in modo sempre più chiaro ed efficace, e aiuta loro a sviluppare autostima, motivazione, consapevolezza, che sono condizioni importanti sia nello sport, sia, soprattutto, nella vita.

27 Mar, 2023

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